Operatori sociali: tra immunitas e communitas

di Riccardo Morelli*

imageLa questione affrontata nel recente post “Considerazioni sull’appropriatezza dei progetti individualizzati nell’area della disabilità” apparso su Scambi di Prospettive ad opera di Walter Fossati è molto interessante, perché rianima un tema da sempre presente nell’ambito delle professioni di aiuto, ossia quello della dialettica con il mondo sanitario. Nello scritto, in sintesi, si afferma che nelle RSD lombarde è inappropriata la presenza prevalente di educatori professionali laureati nella classe 19 ad indirizzo socio-culturale rispetto a quelli laureati nella classe L/SNT/2  ad indirizzo sanitario.

Ritengo che rispetto allo sviluppo delle professioni di aiuto ed alle competenze di chi le esercita, il nodo da affrontare sia prima di tutto di carattere ontologico. Penso che il tema non debba essere principalmente legato all’acquisizione di competenze più o meno congrue, quanto, in primis, all’orientamento culturale di fondo su cui si strutturano tali competenze.
E’ chiaro che la competenza tecnica è centrale. Irrinunciabile. Dobbiamo, però, interrogarci su quale consapevolezza viene innestata su essa. Quale il senso della tecnica che utilizziamo quando siamo posti di fronte alla fragilità? Quale percorso formativo ci può aiutare a sviluppare questa consapevolezza, oserei dire ancor più centrale rispetto alla stessa competenza tecnica?
La sanitarizzazione delle professioni di aiuto è un trend in essere da tempo. Se non direttamente o immediatamente nei curriculum universitari, nella pratica quotidiana e nella vita dei servizi. La penetrazione culturale del modello dell’accreditamento è imponente nell’ambito socio-assistenziale. Con risvolti positivi e negativi.
Soffermandoci sui riverberi che tale modello ha prodotto nell’ambito delle professioni di aiuto, si può affermare che la sanitarizzazione si traduce anche e spesso in prestazionalizzazione delle relazioni ed in conseguente articolazione più che di progetti di vita, di progetti di cura.
La prospettiva indicata dalla Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità (ratificata con legge delle Stato) è diversa. Dice: la disabilità è frutto dell’interazione tra persone e contesto. Se ne deduce che, se lavoriamo con la disabilità, dobbiamo anche lavorare con il contesto.
In questo senso il lavoro con la disabilità ha in sé anche dimensioni di rilevanza comunitaria: persona e comunità sono due facce della stessa medaglia.
Questa considerazione non è secondaria, anche e proprio rispetto ai percorsi formativi degli operatori sociali. La terapia e la cura tecnicamente appropriati sono necessari, ma non sufficienti, perché, se considerati quali obiettivi primari, ci conducono pericolosamente sul ciglio del baratro del primato della prestazione sulla relazione.
Una volta varcata questa soglia è sempre più difficile tornare indietro, anche se è sempre possibile farlo.
Dunque, non possiamo limitarci a chiederci quali saperi ci conducono ad essere dei migliori operatori. Dobbiamo anche domandarci come possiamo divenire dei costruttori di Communitas, più che di Immunitas. L’espressione Immunitas richiama la parola “immunità” e fa pensare al non essere toccabili da qualcosa o qualcuno. L’Immunitas è composta di individui, ovvero soggetti autosufficienti ed indivisibili. In essa lo strumento per governare le relazioni è il contratto e le prestazioni che da esso derivano.
Nella Communitas, invece, vi sono persone, ovvero esseri-in-relazione  e le relazioni sono governate dalla reciprocità, ovvero, semplificando, dall’adesione al principio “fa agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”.
Il primo passo per divenire operatori sociali orientati alla Communitas consiste nel costruire le identità professionali in modo che ne vengano curati, sviluppati e valorizzati gli aspetti dinamici più che quelli statici .
Una cultura formativa che propenda per la costruzione di identità professionali statiche ammiccherà inevitabilmente all’uso della tecnica quale strumento di potere e di controllo. Viceversa, se a prevalere è la costruzione di identità professionali dinamiche, ecco che è maggiormente possibile lasciare spazio al prendersi cura, all’apertura all’imprevisto, all’appassionarsi.

Il sistema dei servizi alle persone con disabilità è la risposta più civile che abbiamo trovato sino ad oggi rispetto all’esistenza stessa delle persone disabili. Per molti aspetti tale sistema va ritenuto una conquista. Tuttavia dobbiamo dire che emerge con sempre maggior forza quanto esso sia solo marginalmente inclusivo. Non genera immediatamente inclusione sociale delle persone con disabilità.
Il limite principale dell’attuale assetto organizzativo (e culturale) consiste nella marginalizzazione dei fruitori dei servizi dalle decisioni relative all’impostazione ed allo sviluppo delle politiche sociali. Ciò si traduce nel trinceramento delle professioni di aiuto, schiacciate tra la rivendicazione e la delega delle persone con disabilità e delle loro famiglie (in forma singola o associata). Oppure, cosa ancor più grave, si traduce nel posizionamento di un sempre maggior numero di professionisti sulla frontiera della Programmazione Acquisto Controllo (altrimenti detta P.A.C.). Questa funzione, affine al mondo dell’accreditamento, se svolta in termini prestazionali (come il contesto culturale dei servizi odierni richiede) assume risvolti preoccupanti dal punto di vista della relazione operatore-utente. L’operatore “pacchizzato” è quello che entra nella relazione sapendo di non rischiare niente ed è occupato principalmente dall’idea di trovare i canali più rapidi ed organizzativamente adeguati per “scaricare” l’utente.

Interrogarsi su uno sviluppo sano delle professioni di aiuto richiede il coraggio di riportare al centro della discussione il tema del potere che viene esercitato dai professionisti nell’ambito dell’esercizio della professione.
Domandiamoci: quale percorso formativo può permettere all’operatore di gestire la sua tecnica come strumento di servizio e non di potere? Come è possibile formare ad un’identità professionale dinamica? Quale strada può consentire agli operatori di divenire costruttori di Communitas?
E da lì ripartire e ripensare anche al curriculum di studi.
Diverrà poi secondario parlare di tutto il resto. Diverrà solo una questione organizzativa, dipanabile con i tempi ed i modi necessari. Magari nella logica indicata dalla Convenzione ONU, quella dell’accomodamento ragionevole.

* Assistente Sociale, Responsabile Servizio Disabili, Comune di Garbagnate Milanese

2 pensieri su “Operatori sociali: tra immunitas e communitas

  1. pierluigi

    Ricco di stimoli e di domande ben poste questo articolo che si pone il dubbio se l’operatore sia in grado di esercitare un potere a beneficio dell’utente piuttosto che a beneficio del gusto di esercitare un potere fine a se stesso.
    E se la sanitarizzazione sia la risposta onesta e corretta ai bisogni delle persone disabili.

    Rispondi
  2. roberto cerabolini

    Interessanti notazioni, che evidenziano l’insufficienza di un sistema di Servizi orientato alla standardizzazione delle risposte, qualificate sulla base delle prestazioni e delle competenze teorico-tecniche di operatori che ‘erogano’ e non apprendono dall’esperienza. Le proposte formulate dagli operatori sociali sono sovente commisurate (e modellate) alla disponibilità di risposte nei Servizi prestabiliti e ‘accreditati’.
    Nella disabilità, in particolare, gli interventi sono spesso impostati “nel segno del deficit”, tengono conto soprattutto delle minorazioni e dei limiti e cercano di colmare le lacune, attraverso interventi mirati a incrementare le loro ‘prestazioni’. In questi Servizi, di frequente, le persone con disabilità si trovano di fronte a compiti di ‘apprendimento’, con la riproposizione per anni e decenni di un modello culturale e relazionale improntato ad una marcata asimmetria tra utenti ed operatori (non a caso qualificati perlopiù come ‘educatori’). Ciò finisce per infantilizzare la persona, ne limita l’accesso a dimensioni di adultità e riduce la sua espressività ad una gamma elementare di contenuti, proposti in forme tendenzialmente stereotipate.
    Gli interventi sociali ed educativi potrebbero invece realizzarsi attraverso un ‘accompagnamento’ della persona a sperimentarsi in variegate situazioni, favorendo un allargamento dell’esperienza e l’acquisizione, da parte del soggetto, di un maggiore controllo sul proprio percorso e la propria esperienza di vita. Vedi http://wp.me/p3tFxA-91

    Rispondi

Rispondi a roberto cerabolini Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *