Nebraska

di Cristina Sironi *

nebraskaDal Festival di Cannes 2013 è arrivato nelle nostre sale «Nebraska» di Alexander Payne, interpretato da un eccezionale Bruce Dern.

Da operatore sociale che si occupa di terza e quarta età, sono sempre incuriosita dalle storie con anziani protagonisti, per cui cerco di non lasciarmele sfuggire.

In questo film scopriamo la vicenda di Woody, un ottantenne del Montana con un passato di alcolista e un presente di decadimento cognitivo, che riceve una lettera pubblicitaria in cui gli viene comunicato di aver vinto un milione di dollari. Ostinatamente certo della sua fortuna, Woody vuole recarsi a Lincoln, in Nebraska, per ritirarla. A piedi (la patente gli è stata ritirata per i precedenti da alcolista)! A nulla valgono i tentativi di convincerlo del contrario da parte della moglie e dei figli. Così il figlio minore, il delicato David, decide di assecondare questa ossessione del padre e lo accompagna in un viaggio all’apparenza ridicolo e senza scopo, ma che gli presenterà numerose sorprese.

Il regista Payne, a cui dobbiamo già in ‘A proposito di Schmidt’ un bel ritratto di neo pensionato, sa portarci con sapienza in una storia semplice, a tratti divertente,  elegante ed essenziale come quei bellissimi paesaggi in bianco e nero che non disperdono la nostra attenzione sulle variazioni di colore, ma la fermano sulle linee e gli orizzonti. Come lo sguardo dei vecchi: che sa cogliere l’essenza e la sostanza e tralascia i particolari. Un bianco e nero che rende egregiamente la marginalità della vita di questo vecchio cocciuto scorbutico frastornato e ciondolante.

È un film che mi è piaciuto molto per la sua sobrietà e per  quella malinconica tenerezza che ti lascia addosso. Tante cose mi hanno colpito, ma in particolare mi volevo soffermare sulla voglia del figlio di seguire quel folle, ultimo, ‘ridicolo’ desiderio del padre, di dargli credito, di riconoscergli un valore, malgrado tutto. All’inizio pare seguirlo per debolezza, per arginare la sua delirante cocciutaggine (si farebbe a piedi più di 1000 km per raggiungere il suo obiettivo!), ma poco alla volta questo suo assecondarlo gli fa scoprire l’uomo al di là del genitore e ne nasce una relazione fatta di domande e di allampanate ma sincere risposte. Una scoperta per nulla sentimentale, anzi, alle volte molto ‘cruda’ ma autentica, senza infingimenti. È attraverso questa condivisione del tempo e dello spazio da adulto, che il figlio incontra l’uomo (padre)  e invece di rimproverarlo o di chiacchierare di cose da niente, se ne prende cura davvero attraverso gesti di assoluta generosità  che sanciscono, ora sì, un legame di affetto, di complicità e di comprensione e che contribuiscono a riscattare la sua immagine, a ridargli dignità. Un affetto e una comprensione molto umane, che alludono a quella pietas rivolta anche a una vita nè eroica o abbagliante nè degna di ammirazione, ma a una vita di uomo comune, con i suoi contraddittori e casuali accadimenti, le viltà e i torti, subiti e inferti. Ma anche il padre, attraverso questo incontro, può confessare di tenere tanto a questa vincita per poter lasciare qualcosa ai figli, come a compensare le sue mancanze.

Questo viaggio, cui si aggiungono per un breve tratto  la madre e l’altro fratello con esiti alle volte esilaranti, è anche un itinerario nella memoria dei luoghi e dei volti che hanno accompagnato la vita del vecchio. Veniamo allora a conoscere luoghi marginali e desolati, come meschini e calcolatori si rivelano i vecchi amici di un tempo e soprattutto i parenti. Proprio per questo la scena finale del vecchio Woody che attraversa il paese di nuovo, alla guida di un furgoncino appena acquistato, per un breve ma infinito momento e sotto gli occhi increduli dei compaesani, lo riscatta e lo libera da tali grettezze, in assoluta complicità con il figlio, inconsapevole elemento della catarsi.

Infatti, come spesso la vita ci insegna, è nella relazione umana che si cresce e ci si trasforma. Allora mi chiedo quante volte la malattia di un genitore possa diventare un’opportunità per conoscerlo, per uscire dai ruoli consunti e stereotipati dell’infanzia e della giovinezza e costruire un’ultima matura intimità, fatta di autentica umana comprensione e compassione? Se ci fosse anche un solo dubbio, questo film ce lo toglie!

* animatore sociale e formatore

Un pensiero su “Nebraska

  1. Patrizia Taccani

    Non ho ancora visto il film; questa lettura mi spinge a fare di tutto per non perderlo. Se il risultato fosse solo questo, mi sentirei di dire che l’Autrice ha fatto un’ottima recensione, anche per l’accurata attenzione dedicata ad alcuni aspetti della realizzazione filmica. La lettura dell’articolo mi ha invece portato più in là, suscitando emozioni e pensieri su cui soffermarmi prima di vedere ”Nebraska” e, paradossalmente, anche se non lo vedessi. Il più significativo riguarda il messaggio implicito di speranza rivolto alle due generazioni – figli adulti e genitori anziani – che così spesso approdano a “un punto morto” della loro relazione: val la pena tentare di percorrere insieme un pezzo di strada, anche se si tratta dell’ultimo tratto possibile. Sì, vale la “pena”, nel senso della fatica di questa nuova impresa relazionale dove nulla è scontato. Così bene viene detto in chiusura! Da ultimo, molto importante per me che appartengo alla generazione in prima linea, è la convinzione che mi son fatta circa il “cuore” della storia: il viaggio. Anche se nella descrizione della vicenda l’input a dar credito all’altro, e quindi a farsene compagno, arriva dal giovane figlio, tuttavia quel cammino a due non si sarebbe mai fatto se il vecchio padre non avesse acconsentito, forse senza molte parole.

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