di Cristina Sironi*
Sono sempre attratta da film che raccontano storie di anziani perché mi interessa capire come lo sguardo del regista illumini aspetti e problemi con cui mi confronto da anni come operatore sociale, e per trarne anche qualche spunto di riflessione.
Il film “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni, merita a mio parere attenzione: da un lato sicuramente ci fornisce uno sguardo positivo e leggero sul morbo di Alzheimer, malattia tanto temuta, dall’altro ci dona speranza sulla possibilità di uno scambio fertile tra generazioni diverse.
La storia si apre su quattro giovani sfaccendati romani, nullafacenti e ignoranti, che passano le giornate al bar a ‘misurare’ i passanti, donne soprattutto, fantasticare cose irreali e trastullarsi tra birre spinelli e qualche scazzottata con i ‘rivali’ di turno. Una vita fatta di niente, un concentrato di difetti umani ma, vedremo, modificabili.
Tra loro Alessandro, l’unico presentato con una famiglia alle spalle, un po’ scombinata, viene costretto dal padre ad occupare il tempo con un ‘lavoretto’ di fortuna per rimediare qualche soldo e soprattutto ‘forgiarsi’ all’impegno. Si tratta di fare compagnia a un vicino di casa, un ottantacinquenne poeta che comincia a manifestare quegli inequivocabili segni di disorientamento e quelle ‘stranezze’ che vengono classificati come l’inizio della malattia d’Alzheimer. Il giovane è catapultato all’improvviso in un mondo a lui totalmente estraneo, di cui deve imparare l’abc e, all’inizio, si adegua.
Giorgio, il vecchio poeta, interpretato da uno straordinario e convincente Giuliano Montaldo, è un uomo mite e apprezza invece fin da subito questa compagnia maschile. Insieme passeggiano per i parchi di Roma e trascorrono pomeriggi in casa. Una casa borghese fatta di libri, ricordi e parole incise sui muri dello studio, dove una volta Giorgio componeva con la sua macchina da scrivere, ora in disuso. Veniamo a sapere che da quando è mancata la moglie ha cominciato a incidere sui muri dello studio versi, disegni, parole, quasi a dare consistenza alla vita che sentiva svanire. Questi misteriosi graffiti lacerano l’apatia di Alessandro che li ‘cattura’ con il telefonino e proprio da questo gesto inizierà una ricerca che gli darà umanità. In questa vicenda viene coinvolto, ma spesso si impone, anche il branco di amici che si installano a casa del poeta per vedere insieme le partite di calcio, tifare rumorosamente e fumare. Ascoltando gli sconnessi racconti del vecchio, Alessandro comincia a interessarsi alla storia di Giorgio, a farsi domande, a capire che esiste un’altra dimensione del tempo, il passato, che potrebbe essere interessante conoscere. Lo ritroviamo così, goffo e impacciato, in una biblioteca a cercare di capire la Storia per decifrare e collegare ai graffiti i frammenti dei racconti di guerra del vecchio. Proprio da qui inizia la trasformazione sua e degli amici che, immaginando chissà quale tesoro abbandonato, intraprendono un viaggio emozionante e al tempo stesso esilarante insieme al vecchio. Alla fine del viaggio nulla sarà più come prima e ciascuno avrà portato a casa il suo tesoro di parole, emozioni e consapevolezze e il vecchio avrà ritrovato una parte di sé.
Commuove la forza espressiva dei ricordi allucinati del vecchio poeta che rivive i suoi antichi commilitoni nei quattro giovani, percezione questa che rende vivida la dimensione temporale sfasata entro cui vivono questi malati. Il regista Francesco Bruni, invece che mortificarla, come spesso succede nella quotidianità, la pone come elemento chiave e motore di tutta la vicenda, facendo della reminiscenza un valore da scoprire per le nuove generazioni. Infatti per questi giovani che vivono nel presente, cosa rappresenta questo vecchio se non un corpo mal funzionante, senza valore, utile solo a procurare un compenso economico ad Alessandro? Invece la conoscenza del suo passato, fatto di sacrifici, sfide e difficoltà superate e amori, cambia la considerazione che hanno di lui e fornisce loro una diversa chiave di lettura anche della loro realtà.
Un altro elemento interessante mi sembra essere la dimensione della vicinanza e dello scambio tra generazioni nel contesto di cura dell’estrema fragilità. Il vecchio poeta, infatti, apprezza la compagnia dei giovani; insieme a loro pare recuperare energie, si diverte e li diverte e riesce, con la sua morbida e avvolgente pacatezza a incrinare la loro dura opacità, ad addolcirla. Il regista sa bene, anche per esperienza personale come ha raccontato in un’intervista, che è importante non isolare questi malati (e le loro famiglie), ma cercare di creare tutte le occasioni possibili per scambi e confronti con il mondo reale.
Un’ultima nota riguarda il linguaggio. Anche su questo fronte si innesca un movimento, una trasformazione: quel linguaggio così ricco di esperienza del poeta, fatto di parole non comuni e del sapere emozionale di una vita intensamente vissuta, che all’inizio disorienta i giovani, usi a un gergo stereotipato e arido, poi li contamina, li affascina, tanto che riusciranno a trovare parole per esprimere, finalmente, emozioni e sentimenti.
Insomma una bella storia, con un cast di giovani attori alle prime prove, ma molto convincenti.
*animatore sociale e formatrice