La fuga verso il nord Europa dei richiedenti asilo sopravvissuti al Mediterraneo

di Chiara Denaro*

In attesa della pubblicazione su Prospettive Sociali e Sanitarie (inizio 2014) del suo articolo “Tra le macerie del “Modello Lampedusa””, vista l’attualità del tema, abbiamo chiesto all’autrice di proporci un post, che è prontamente arrivato.

centro accoglienzaRiflessioni a margine delle politiche di gestione dei flussi migratori via mare verso l’Italia

Lo scorso 3 ottobre, nel tentativo di raggiungere l’Europa hanno perso la vita 366 persone. Si trattava di potenziali richiedenti asilo politico, provenienti dalla Siria e dal Corno d’africa, fra cui moltissime donne e bambini.

I dati raccolti con estrema cura da Fortress Europe, fondati su un censimento delle notizie presenti negli archivi della stampa internazionale negli ultimi 26 anni è attualmente aggiornato al 12 ottobre e denuncia la morte di 19.372 persone lungo le frontiere dell’Europa, a partire dal 1988. Una perdita di vite umane continua, che non accenna a diminuire, e che riguarda in prevalenza coloro che tentano di attraversare il Mediterraneo. La scelta di “chi non ha scelta”, di chi affronta la morte per sfuggire alla stessa.

Nel solo 2011 avrebbero perso la vita 2.325 persone; nel 2012 almeno 590 e nel 2013 già 695. Si tratta di dati approssimati per difetto, in cui non rientrano i dispersi, né i “morti in silenzio”, la cui triste fine non è riuscita a raggiungere gli organi di stampa internazionali. Ciò nonostante si tratta di dati rilevanti che continuano, naufragio dopo naufragio, a giustificare l’utilizzo del concetto di “strage” (Del Grande, 2007).

I controlli? Ci sono, ma…

Eppure il tratto di mare percorso dalle rotte migratorie principalmente battute, che sono attualmente quella egiziana, libica e tunisina, è estremamente controllato. Le imbarcazioni militari di Frontex sono dotate di tutti i mezzi tecnologici necessari a intercettare le imbarcazioni. Dove non dovesse arrivare Frontex ci sarebbero i mezzi militari utilizzati nelle politiche di controllo congiunto delle frontiere, determinate nel quadro degli accordi dell’Italia con i paesi di provenienza delle imbarcazioni. La convenzione di Montego Bay, inoltre, stabilisce per ciascun tratto di mare la competenza di ciascun paese, nel tentativo di eliminare l’incertezza che giustificherebbe un “non-intervento”.

Un tempo, vi era anche l’intervento dei pescatori, obbligati a intervenire dalla “legge del mare”. Purtroppo, anni di sanzioni “esemplari”, in applicazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, sembrano essere riuscite a neutralizzare questa forma di soccorso, che è costata anni di carcere, decine di sequestri d’imbarcazioni e ripercussioni d’ogni sorta (Delle Donne, 2008).

Cosa pensiamo di quanto sta succedendo?

L’approccio con cui mass media e personaggi politici affrontano dopo ogni tragedia l’argomento “sbarchi”, continua a generare confusione, non permettendo di costruirsi un’opinione univoca rispetto al tipo di interventi idonei a “fermare la strage”.

L’accesso al diritto di asilo politico, sancito dalla Convenzione di Ginevra, potrebbe essere favorito attraverso l’apertura di corridoi umanitari, evitando che “i profughi siano costretti a chiedere protezione internazionale a nuoto” (Nicolini, 2013). Purtroppo, tali corridoi si configurano come gravi minacce nel quadro della politiche di difesa della Fortress Europe e della lotta all’immigrazione clandestina. Come sottolinea Briguglio (2013), quest’ultima costituisce una problematica distinta che andrebbe affrontata attraverso l’incremento delle possibilità reali di effettuare l’ingresso in Europa per vie legali. Dunque, gli interventi specifici, auspicabili al fine di rispondere alle necessità delle diverse istanze che compongono i flussi migratori misti, “richiedenti asilo” e “migranti economici” rischiano ancora una volta di essere sintetizzati in quello che Briguglio definisce un “obiettivo di facciata”, ovvero “evitare le morti in mare”. La risposta fornita sembra essere nuovamente la più semplice e meno dispendiosa, ovvero quella di “evitare le partenze”.

Gli esiti disastrosi delle politiche di “blocco delle partenze”, implementate dall’Italia attraverso gli accordi di riammissione con i paesi del Nord Africa, sono tristemente noti. È sufficiente ricordare la sentenza CEDU del 23 febbraio 2012, cd “Caso Hirsi”, con la quale l’Italia fu duramente sanzionata per la questione dei “respingimenti in mare” verso la Libia. Quella Libia che non è dotata di un sistema di asilo politico, come dimostra il fatto che l’ufficio dell’UNHCR sia stato chiuso, e dove i potenziali richiedenti asilo vengono di prassi incarcerati, nei lager di Kufrah, Sebha, Misratah. Questi luoghi, teatro di compravendite di esseri umani, torture e violenze d’ogni sorta, negli accordi Italia-Libia vengono ancora definiti impropriamente come “centri di accoglienza”. Quella Libia ove, secondo le cifre stimate dal Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR), sarebbero presenti oggi circa 120.000 profughi siriani, in attesa di raggiungere l’Europa.

L’Europa, appunto, non necessariamente l’Italia

Attualmente ci troviamo di fronte a un cambiamento evidente, poiché chi sbarca in Italia non vuole fermarvisi e, nella consapevolezza della normativa vigente (regolamento Dublino II), cerca di non farsi identificare. Rifiuti di fornire le impronte digitali e fughe dalle strutture di prima accoglienza si sono susseguiti durante tutta l’estate e proseguono in questi giorni.

La prima manifestazione fu il 20 Luglio, a Lampedusa, e proprio in quell’occasione un richiedente asilo eritreo riassunse in poche parole il dramma di chi sceglie di riconsegnarsi alla clandestinità per raggiungere il nord Europa. “In Italia non c’è nulla”, disse, “neppure per gli italiani”.

I migranti sanno bene che il primo paese dell’area Schengen ove fossero identificati sarebbe il Paese competente per l’analisi della loro domanda di asilo politico, e che una volta rilasciate le impronte è lì che dovrebbero restare.

Alcuni di loro sanno anche che il Regolamento Dublino prevede il ricongiungimento con familiari residenti in Europa, con conseguente mutamento del “paese competente all’esame della domanda di asilo” in via subordinata all’accertamento delle relazioni di parentela. Questi ultimi, inoltre, grazie ai racconti dei compaesani, hanno un’idea realistica del funzionamento del sistema di accoglienza italiano, e sanno che vedersi riconosciuto questo diritto, nonostante il Regolamento Dublino 3, che entrerà in vigore a partire dal 1 gennaio 2014, lo ribadisca e individui procedure volte a favorirlo, è molto difficile, se non impossibile.

Dunque sbarcano, e cercano di evitare le identificazioni. Magari non riescono, ma comunque fuggono.

I viaggi verso il nord Europa

Il mercato clandestino di “viaggi verso il nord Europa” si sta attrezzando per soddisfare questa nuova domanda. Ed è così che la partita finale si gioca altrove: Austria, Francia, Germania, Svizzera, ma anche più a Nord, fino alla Danimarca o alla Svezia. Sempre più migranti in fuga vengono bloccati e restituiti al mittente.

Cosa li spinge, dunque, a riconsegnarsi alla clandestinità? Raggiungere i parenti, gli amici, le comunità. Identificare dei “punti fermi”, che gli permettano di rielaborare la fuga, il viaggio, le violenze subite, e che gli diano ancora una speranza. Eppure fuggono anche coloro che non hanno parenti né relazioni in Europa, ma come biasimarli?

I Centri di Primo Soccorso e Accoglienza di Lampedusa, di Pozzallo, la tensostruttura di Porto Empedocle, l’ex mercato ittico di Porto Palo e molti altri luoghi del sud Italia continuano a funzionare nel mancato rispetto degli standard sanciti da capitolato d’appalto (Interno, 2008), nel sovraffollamento cronico, nella sporcizia e nel degrado. Del sistema di primo soccorso, accoglienza e smistamento dei migranti in meno di 48h, divenuto noto come “Modello Lampedusa” sembra non esser rimasto nulla, eccetto il progetto Praesidium, che continua ad operare con estrema difficoltà.

Le stesse organizzazioni coinvolte (UNHCR, OIM, CRI, Save the children) hanno denunciato in alcune occasioni l’impossibilità di incontrare i migranti, ed è in questi divieti che crolla il diritto all’assistenza legale, sociale e sanitaria.

Nelle immagini di migranti accampati su materassi luridi, a cielo aperto, la distanza tra la realtà di questi luoghi e l’idea di “terra d’asilo” che aveva spinto i migranti a rischiare la vita in mare appare incolmabile.

E i migranti fuggono. Fuggono da luoghi ove non si sentono ancora in salvo. Luoghi che danno la voglia di fuggire ancora.

 Bibliografia

* Assistente Sociale

Sullo stesso tema ricordiamo il bel post di Diletta Cicoletti sempre su Scambi di Prospettive:Parlare e governare: i migranti nel deserto della politica

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