Il senso del tempo e la questione della libertà nella relazione di cura

di Monica Murabito*

Help Sign Shows Lost In Maze Emergency

La domanda intorno alla quale ruotano le mie riflessioni riguarda lo spazio di libertà tollerato dall’assistente sociale all’interno della relazione di aiuto: quali margini di libertà e quali tempi si permettono alla persona nel decidere il proprio percorso di cura?

Chiarisco subito che il mio è uno sguardo sentimentale sulle cose, cioè, etimologicamente, una percezione delle impressioni, un esercizio della sensibilità.
E’ mio interesse analizzare ciò che accade quando l’operatore è immerso nella pratica di cura, fermare l’immagine e approfondire il ruolo dell’assistente sociale nel momento specifico del colloquio, dell’incontro con l’altro, in particolare quando ci si deve confrontare con le “resistenze”.
La cura, che prevede anche la vigilanza e lo stare in osservazione, costituisce e sostanzia la pratica stessa dell’assistente sociale, e si svolge attraverso le parole, durante il colloquio.
Nella pratica di cura si mettono in gioco regole che sono funzionali alla relazione stessa:  definisco e delimito per vigilare, per prendermi cura, per far si che la cura stessa possa avvenire. La relazione che si instaura è per definizione asimmetrica e l’esercizio del ruolo professionale determina una relazione di potere. Nella relazione che si instaura con l’altro si esercita un potere affinché sia influenzata la possibilità di scelta e siano strutturate le sue risposte possibili. Così come indicato dagli studi di M. Foucault: “[…] Nelle relazioni umane, qualunque esse siano – che si tratti di comunicare verbalmente, o di relazioni d’amore, istituzionali o economiche – il potere è sempre presente: mi riferisco alla relazione all’interno della quale uno vuole cercare di dirigere la condotta dell’altro. Sono dunque relazioni che possono essere riscontrate a livelli diversi, sotto forme diverse; le relazioni di potere sono relazioni mobili, possono cioè modificarsi e non sono date una volta per tutte.” (M. Foucault, 2005).
Ma le relazioni di potere, quindi, insite nelle pratiche di cura e necessarie alla trasformazione evolutiva dell’altro, possono darsi solo ad una condizione: che i soggetti coinvolti nella relazione siano liberi. Scrive sempre Foucault: “Bisogna anche sottolineare che le relazioni di potere possono esistere soltanto nella misura in cui i soggetti sono liberi. Affinché si eserciti una relazione di potere bisogna dunque che dalle due parti esista sempre almeno una certa forma di libertà”.

Quando “le relazioni di potere sono fissate in modo da essere perpetuamente asimmetriche e da limitare estremamente i margini di libertà” siamo in uno stato di dominio, nel quale l’altro diventa un oggetto, è ridotto all’impotenza.
Quando non si consente all’altro la “resistenza”, che può essere fuga, sotterfugio, strategie varie per ribaltare la situazione, si blocca la dinamica di trasformazione insita nella relazione e si scivola nel dominio sull’altro.
Diviene evidente la complessità insita nell’esercizio delle pratiche di cura e va cancellata subito l’idea che sia sufficiente, per superare l’ostacolo, una buona predisposizione d’animo nell’operatore, seppur necessaria; poiché non possiamo considerarci immuni per statuto professionale. Durante un colloquio si può facilmente innescare, anche inconsapevolmente, una dinamica di dominio; succede, ad  esempio, quando non si rispettano i tempi della persona che si ha di fronte e si cerca di arrivare ad obiettivi  prestabiliti in partenza senza tener conto dei tempi interni dell’altro.
Permettere spazi di libertà e di resistenza significa  anche rispettare i tempi e con essi rispettare la libertà ed il potere della persona di decidere se farsi aiutare o meno, o se è in grado di farlo in quel determinato momento.
Cosa succede se la persona non procede di pari passo con l’assistente sociale durante il colloquio, se rallenta, devia, cammina a ritroso?
In questa fase sembra che il tempo scorra più veloce per l’operatore, che ha aspettative, obiettivi, tappe mentali e reali da realizzare ed è invece chiamato ad una momentanea sospensione. E’ fondamentale imparare a rimanere in attesa, nel guado, e dare tempo al tempo, sostenendo lo stato di tensione interna che ciò comporta.
Ma è un tempo vuoto per l’altro? In verità è un tempo pieno di significato… Un tempo progettuale che è scandito dal perseguimento di obiettivi interni alla persona, un lavoro di comprensione di sé e di adeguamento agli obiettivi che la cura propone, passaggi che  molte volte rimangono ignoti all’operatore.

“E’ proprio questa la ragione per cui l’opera del tempo è profonda. Essa non è semplicemente il rinnovamento per mezzo della creazione: quest’ultima resta legata al presente, non riesce a dare al creatore null’altro se non la tristezza di Pigmalione. Più che il rinnovamento dei nostri stati d’animo, delle nostre qualità, il tempo è essenzialmente una nuova nascita.”  (E. Levinas, 1997)

Tutti i modi di dominio, di assoggettamento si ridurrebbero, in fin dei conti, all’effetto di obbedienza.
Si chiede all’altro di aderire al progetto, nei tempi e nei modi della cura proposti dall’assistente sociale.
Bisogna però prendere atto che non può essere esaustiva  una modalità pastorale,  dove il ruolo professionale è incarnato dal pastore che guida e che chiede in cambio obbedienza.
Lavorare con persone obbedienti è senz’altro più facile… ma vogliamo persone che ci obbediscono o soggetti, anche resistenti, individuati?
E’ anche chiaro che per primo l’operatore deve compiere un proprio processo di individuazione per avere presenti i confini tra sé e non sé e consentire consapevolmente all’altro i propri spazi di libertà e quindi di resistenza.
Un lavoro su di sé ed uno spazio di supervisione imprescindibili per chi è impegnato nel lavoro di cura e ancora troppo spesso trascurati.

Concludo con una bellissima suggestione del grande scrittore D. F. Wallace: “Ma ti dico la verità, guardarmi in giro per la stanza e dare automaticamente per scontato che tutto il resto dei presenti siano meno consapevoli di me, o che la loro vita interiore sia in qualche modo meno ricca, meno complicata, o percepita con meno intensità della mia, mi rende uno scrittore meno bravo. Perchè significa che la mia sarà un’esibizione per un pubblico senza volto, invece che il tentativo di fare conversazione con una persona.” (D. Lipsky, 2011)

Bibliografia
F. Di Lernia, “Ho perso le parole”, Edizioni La Meridiana (2008)
M. Foucault, “Antologia”, a cura di Sorrentino, G. Feltrinelli (2005)
E. Levinas, “Il Tempo e l’Altro”, Il Melangolo  (1997)
David Lipsky, “Come diventare se stessi” D.Foster Wallace si racconta, Minimum fax
(2011)
M.Murabito, “Riflessioni sulle nuove responsabilità del servizio sociale”, in www.lavorosociale.com, edizioni Erickson (marzo 2015)

* Assistente Sociale Municipio VII – Roma Capitale

3 pensieri su “Il senso del tempo e la questione della libertà nella relazione di cura

  1. Ornago Nadia

    Ciao Monica, sono una collega che lavora a Sesto S. Giovanni nell’area adulti, molto anziana dal punto di vista lavorativo; ti ringrazio per il bell’articolo che hai scritto, illuminante per certi versi, incoraggiante per chi, come me, lavora in un ambito in cui le persone, in particolare uomini, arrivano da noi come svuotate di ambizioni, speranze, risorse, quasi come se la loro storia, fatta certamente anche di esperienze spiacevoli e profondamente negative, potesse contare poco o nulla di fronte al futuro.
    I loro tempi sono lunghi, troppo lunghi per essere “visti” e/o considerati come “fruttiferi”.
    Forse è vero che, almeno noi, non possiamo/dobbiamo perdere la fiducia e saper attendere che i (loro) tempi maturino tenendo sempre le mani in pasta. Prima o poi qualcosa lieviterà…
    Molto interessante. Nadia Ornago

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    1. Monica Murabito

      Grazie Nadia, è molto interessante quello che hai scritto…penso sia importante per noi operatori mantenere sempre aperto uno spazio di riflessione e un tempo per mentalizzare ciò che accade durante il colloquio.
      Ti ringrazio e a presto.
      Monica

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  2. roberto cerabolini

    Il contributo di Murabito mi pare sollevi questioni fondamentali di ogni relazione di cura, e giustamente chiama in causa il tema del potere, della scelta e del tempo. Non si tratta soltanto di impressioni, né si possono limitare al ruolo dell’assistente sociale, coinvolgendo piuttosto tutti coloro che operano nel sistema sociosanitario.
    Le modalità con cui si manifesta il disagio della persona, soprattutto quando è ‘diffuso’, assumono forme socialmente ‘spendibili’ e riferibili alla percezione che questa ha del professionista a cui si rivolge: così all’assistente sociale vengono perlopiù presentate richieste di contributi e assistenza, al medico sintomi (psico)somatici. Più difficilmente persone con disagio diffuso si rivolgono allo psicologo o allo psichiatra, mentre talvolta si accostano a maghi e guaritori. In ogni caso le persone si impattano con dispositivi, regole e saperi che tendono a interpretare i bisogni espressi in funzione di possibili risposte, sovente settoriali e appartenenti allo strumentario di ciascun professionista.
    Il rischio che gli operatori colgano nel disagio dell’utente solo gli elementi a loro noti, gestendo la relazione di cura attraverso l’esercizio del potere e passivizzando così la persona, può essere limitato, come sostiene Murabito, proprio assumendo una posizione di osservazione e dando all’interlocutore il tempo e gli strumenti per esprimersi e partecipare alla costruzione del percorso di cura. Così l’operatore diviene attivatore di un processo di cambiamento, che rimette in discussione le relazioni esistenti e riconsidera il senso dei problemi presentati dalle persone che a lui si rivolgono. Mi pare quindi che alla condizione di saper stare in attesa, l’operatore debba aggiungere anche quella di saper ‘dialogare’ con l’utente, e di coinvolgere eventuali altri operatori all’interno di un percorso caratterizzato dalla libertà e dalla partecipazione.

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